meditate, gente, meditate...

Il Manifesto di ieri, prendendo spunto dal discorso di Mario Draghi, ha pubblicato un eloquente riassunto, pieno di cose su cui l'opinione pubblica dovrebbe riflettere, invece di pensare alle mignotte di Berlusconi o agli omicidi di provincia.

Un non marxista che parli di centralità del lavoro è merce rara, ma Mario Draghi ieri l'ha fatto - e bene - dando una lezione alla politica impantanata nel chiacchiericcio quotidiano. Certo, il governatore di Bankitalia ha affrontato anche i problemi legati alla crescita, alla stagnazione della produttività, alla mancata liberalizzazione del mercato dei servizi. Ma il tema centrale rimane il lavoro (anche «l'alienazione e la pena», come ha fatto Draghi citando Giorgio Fuà. Con un appello finale da non sottovalutare: occorre una progressiva stabilizzazione del lavoro precario. Negli anni '90 quando fu imposta «per merito» del centrosinistra la questione della flessibilità del lavoro - e quindi della precarietà - si sosteneva che in questo modo si sarebbero creati molti posti di lavoro. Dice Draghi: posti di lavoro ne sono stati creati in abbondanza
negli anni pre-crisi. Tuttavia «senza la prospettiva di una pur graduale stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari, si indebolisce l'accumulazione di capitale umano specifico, con effetti alla lunga negativi su produttività e profittabilità». Il tutto in un contesto nel quale «rimane diffusa l'occupazione irregolare, stimata dall'Istat in circa il 12% del totale». E questa divaricazione tra lavoro regolare, lavoro precario e lavoro nero penalizza soprattutto i giovani. Anche perché «la mobilità sociale persistentemente bassa che si osserva deve allarmarci». Secondo studi di Bankitalia, «nel determinare il successo professionale di un giovane il luogo di nascita e le caratteristiche dei genitori continuano a pesare molto di più delle caratteristiche personali».
In maniera educata e indiretta, Draghi di fatto ha messo sotto accusa le imprese. Nel nostro modello di sviluppo, ha detto, la dimensione aziendale, quando l'innovazione era prevalentemente di processo, poteva dare flessibilità al sistema produttivo. Ma «oggi che l'innovazione riguarda principalmente i prodotti e la loro diversificazione», tutto si è maledettamente complicato. In particolare per le imprese più piccole che cercano di rimanere a galla con il lavoro nero e con quello precario. Il risultato di questo ritardo è evidente
nella perdita di competitività rispetto ai principali partner europei: nei primi 10 anni dell'Unione monetaria - tra il 1998 e il 2008 - il costo del lavoro per unità di prodotto nel settore privato è salito in Italia del 24%, contro il 15% della Francia e «addirittura una diminuzione in Germania». Da notare che nominalmente i salari in Italia nello stesso periodo sono cresciuti parecchio
(29%) ma l'aumento è stato divorato dall'inflazione, tanto che la dinamica reale (+3%) è simile a quella tedesca. Con la differenza che le retribuzioni orarie tedesche erano all'inizio del periodo del 50% superiori a quelle italiane. E tali sono rimaste. Sostiene Draghi: dobbiamo tornare a ragionare di sviluppo e benessere. Speriamo non solo quello sessuale di Berlusconi.

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