Stampa musicale e altre cose

Io ho un'avversione generale verso gran parte della stampa musicale italiana, nel senso che rarissimamente riesco a comprare una rivista musicale e completare la lettura più soddisfatto che incazzato (anzi, molte volte non riesco a completare la lettura per niente). Pagine e pagine di recensioni criptiche e autocompiaciute (apro a caso -giuro- e cito: "O se volete, proprio per quella sua irrefrenabile corsa delta slide che tracima da tutte le parti, gli Immortal Lee County Killers. Che immagino non conosciate, ed è un peccato": proprio così, il periodo inizia proprio così, senza manco un verbo... punto e virgola questo sconosciuto) o, all'estremo opposto, svarioni inconcludenti e off topic su cronaca, storia, politica e deliri vari.

Questo tipo di stampa musicale è sopravvissuta, sempre più a stento, in un'epoca in cui per la stragrande maggioranza della gente era l'unica fonte, insieme alle radio libere e ai negozi di dischi, di informazione musicale: leggevi la recensione, sentivi per caso un pezzo alla radio, andavi al negozio a chiedere un parere, a leggere le note di copertina dell'LP, e a sentire qualche altra traccia se il proprietario era gentile - cosa rara.
Questa situazione mi è guarda caso balenata davanti a gli occhi in questi giorni a causa di un incrocio fortuito di letture: principalmente questo articolo del NYT: Sidestepping the digital demimonde, che confronta la iper esposizione in tempo reale dell'arte ai giorni nostri attraverso Internet con il lento passaparola con cui si sviluppavano i movimenti underground fino a una trentina di anni fa. Vale la pena di leggere tutto l'articolo; alcuni passaggi sono esemplari: "“You used to have to be really in the know,” he said. “If you’re at a certain punk show at CBGB’s, that had a certain cachet. If you had an original T-shirt from a first Metallica show, that is really something. You’d have to scour record bins to get an original pressing. Now all of that stuff is available via YouTube and eBay. It really changes the dynamic.”". E anche e soprattutto: "“It was relatively easy,” said David Byrne, “back in the day, to work with only a smallish number of people watching, as we sometimes succeeded and sometimes failed.” In the mid-’70s, the early days of his band Talking Heads, “we felt comfortable trying out different things, songs that were quickly abandoned and stage wear that proved impractical,” he wrote in an email. “That’s all hugely important (the songs part anyway) as it allowed us to explore, refine our identity and go down those musical dead ends without the embarrassment of public scrutiny.”"
La cosa soprendente è che ho trovato un'eco di tutto ciò tra le righe di un paio di riviste che ho acquistato recentemente. Su Rumore di Novembre c'è un'intervista-chiaccherata tra Niccolò Contessa dei Cani e Zerocalcare, dove si dice: "Ecco, questa sì che è una cosa generazionale: il senso di assoluta precarietà che ti dà l'approvazione sul web. Lì i fenomeni di massa montano e muoiono come le onde della marea: un giorno sei il più grande, il giorno dopo sei l'ultimo degli stronzi. Fino a vent'anni fa era tutto più mediato. Facevi le tue cose c'erano le riviste specializzate che ne parlavano... Oggi invece no, c'è assoluta immediatezza. Tutti si sentono in dovere di partecipare e sei sempre a portata di insulto." Guarda caso, dicevo, più o meno della stessa cosa si parla nella rubrica delle lettere al giornale su Blow Up numero 186, con un lungo commento che non sto a riassumere e potete leggervi comprando il giornale, che in questa edizione mi pare interessante e ben fatto.

Tornando al punto iniziale scopro che c'è un dibattito in corso -tangenziale appunto alla mia avversione alla stampa musicale- sul fatto che su riviste e blog ci sarebbe un sacco di gente che scrive gratis "per avere una vetrina", e giustamente qualcuno si scaglia indignato contro questa pratica. Leggo una riflessione intelligente a proposito proprio su Blow Up, a firma Stefano Bianchi, che riassumo qui, citando: "Chiedo però a coloro i quali si preoccupano di far rispettare il lavoro intellettuale se una decina di anni fa stigmatizzavano con la stessa sollecitudine il comportamento inavvertitamente illegale e furtivo di quanti caricavano e scaricavano dischi (e film) altrui senza il permesso di coloro i quali ne detenevano i diritti, oppure se compiacevano il pubblico berciante alzando lodi alla Libertà Della Rete [...]. [Nella Rete] è lì che è nata l'incultura del tutto-free, è lì che si è diffusa la somma idiozia della 'condivisione' [...]. E' lì che è nata l'idea che la cultura sia un passatempo, un dopocena, uno sfizio, un gioco, che non rispettare il lavoro altrui, quando si può, non è poi così sbagliato, anzi è un bel gesto 'antagonista' contro i cattivissimi padroni del vaporetto: ohibò, gli stessi dai quali adesso si pretenderebbe d'esser pagati".

Io la mia idea ce l'avrei: l'accessibilità in tempo reale dei contenuti digitali è una stato di fatto dal quale non si può prescindere. Internet ha superato la carta stampata per velocità, e la radio e la TV per quantità e qualità degli approfondimenti disponibili; francamente tra i tre mass media tradizionali quello che vedo meglio attrezzato per competere è proprio la carta: rinunciando alla competizione sulla velocità, ma puntando sugli approfondimenti asincroni e i link al mondo digitale. La carta stampata, poi, ha a disposizione una facile trasformazione da testo a ipertesto, migrando o ampliandosi sul web o, meglio ancora, sulle app per smartphone e tablet: sappiamo che gli utenti hanno molta difficoltà a pagare per i contenuti di un sito web, ma le cose sono ben diverse con le app, e se milioni di persone hanno versato il loro obolo ad Angry Birds, non vedo perché qualche migliaio non possano farlo per leggere una rivista musicale, magari in modalità "pay-per-read" dove i contenuti sono acquistabili in formati più flessibili del tradizionale numero completo fotocopia di quello in edicola, dove sia possibile, con un semplice clic, finalmente ascoltare la musica di cui si parla tra le pagine. Insomma, una specie di Spotify arricchito dalla guida dei recensori e dei professionisti che scrivono sulla rivista. Una cosa di questo tipo permetterebbe di pagare facilmente la qualità del lavoro del giornalista, e fornirebbe il miglior prodotto possibile al lettore. Ovviamente l'impresa non è facile: ci vogliono firme professionali e scrittura di qualità, e soprattutto ci vogliono degli imprenditori veri che siano in grado di fare un prodotto moderno (che in italiano si può facilmente tradurre in "diverso da quanto c'è sul mercato ora") che sappia sfruttare le potenzialità dei mercati simil-iTunes (Angry Birds docet, appunto) e sappia districarsi nel mondo del copyright con la stessa abilità degli store d'oltreoceano.
Fornendo scrittura di qualità insieme alla musica ascoltabile legalmente si porrebbe un freno, forse, anche all'altra piaga della "stampa" musicale di oggigiorno: i blog più o meno artigianali pieni di articoli e recensioni di dischi e concerti spesso sproloquianti, sgrammaticati e variamente scalcinati che sembrano spuntare come funghi, magari sotto l'egida di qualche firma d'autore, infarciti poi del classico esercito di dilettanti allo sbaraglio, dati in pasto al malcapitato lettore con la scusa che "è gratis e quindi cosa pretendi", anche quando gratis proprio non è, visto che spesso e volentieri l'obbiettivo di tutta l'operazione -almeno per quelli che non sono ricchi di famiglia- è quello di fare due lire coi google ads e simili. Ecco, su questo punto poi, sull'avanzata delle orde di dilettanti allo sbaraglio, avrei molto di cui sproloquiare, ma magari lo faccio in un'altra occasione.

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