Ho letto recentemente due editoriali, su testate di orientamento decisamente divergente, trattare il tema del "fallimento" della globalizzazione, e la cosa mi ha sorpreso e un po' preoccupato.
Philip Stephens sul Financial Times analizza l'attuale scenario politico-militare alla luce dei recenti avvenimenti in Ucraina e non solo ("The world is marching back from globalisation"). Stephens dice che "history will record that sanctions against Russia marked the start of an epochal retreat from globalisation" e partendo dall'invasione russa della Crimea sostiene che la Russia si può permettere questi comportamenti inaccettabili solo grazie all'esitazione di Europa e USA e che, fondamentalmente, la NATO dovrebbe intervenire militarmente. Qualcuno ha un deja vu? 1914? 1939?
E ancora: "Then came the crash. Finance has been renationalised. [...] Global capital flows are still only about half their pre-crisis peak. [...] The open trading system is fragmenting. The collapse of the Doha round spoke to the demise of global free-trade agreements" e via dicendo, per concludere che "abbiamo scoperto nel 1914 che l'interdipendenza economica è bastione alquanto debole di fronte all'antagonismo tra le grandi potenze".
Mentre leggevo queste righe, vedevo miei compatrioti per i quali la globalizzazione, in realtà, non è nemmeno iniziata o, forse, sta bussando alle porte chiuse delle loro relazioni personali ed economiche. Persone che guardano ancora chi gira con un velo o un turbante in testa come una presenza aliena, che si ritirano impauriti con gli occhi sgranati appena si menziona una possibile interazione umana (che so, magari in vacanza) con persone di etnie non bianche, in quanto viste come presenze esotiche, inavvicinabili e con le quali è impossibile comunicare da pari a pari. Persone che gestiscono aziende e danno lavoro, per le quali "globalizzazione" ha voluto dire solo, alternativamente, "chiudiamo la ditta e spostiamo la produzione in Vietnam" o "chiudiamo la ditta perché i cinesi ci rubano il lavoro". Mosche bianche quelli che quei mercati hanno cercato non dico di conquistarli ma almeno di entrarci, invece di subirli e basta.
E tutte queste persone, che hanno subito o addirittura fatto resistenza ai grandi movimenti globalizzatori, economici e migratori, oggi paradossalmente rischiano di ritrovarsi dalla parte del "giusto", ferme com'erano in quell'epoca medievale di frontiere segnate da muraglie e fossati alla quale sembra purtroppo che stiamo tornando.
Queste persone, chiuse nel loro ristretto orizzonte, non solo quindi rifiutano i grandi movimenti globali, ma a maggior ragione sono ignare delle proposte avanzate per modificarli, come quelle che, un po' vagamente, propone Guido Viale sul Manifesto. ("L'alternativa radicale alla globalizzazione"). "Dal conflitto israelo-palestinese alla guerra tra Iraq e Iran, dalla Somalia all’ex Jugoslavia, dalle due guerre contro l’Iraq all’Afghanistan, e poi all’Algeria, alla Libia, alla Siria e di nuovo all’Iraq, e poi in Ucraina, l’establishment dell’Occidente ha ormai perso il controllo delle forze che ha scatenato." Viale parla di trend che "sono destinati a produrre un crescendo continuo di profughi, sia ambientali che in fuga da guerre e miseria, destinati a sconvolgere la geopolitica planetaria": "pensare di affrontare questi flussi con politiche di respingimento è non solo criminale, ma del tutto irrealistico. Ma avere milioni di nuovi arrivati da «ospitare», con cui convivere per molto tempo o per sempre, a cui trovare un’occupazione, evitando di innescare in tutto il paese focolai di infezione razzista [...] rende addirittura risibili le politiche economiche e sociali di cui dibattono i nostri governi, tutte calibrate sui decimi di punto di Pil." E ancora: "la governance europea non va più in là del giorno per giorno." Viale sostiene che queste governance non hanno un "Piano B" alternativo alla globalizzazione economica liberista, nonostante questa si provi fallimentare ogni giorno. Ed è qui che le proposte, pur condivisibili, si fanno un po' vaghe: "noi dobbiamo pensare e praticare nell’agire quotidiano alternative che valorizzino i benefici dell’unificazione del pianeta in un’unica rete di rapporti di interdipendenza e di connettività, ma in condizioni che non facciano più dipendere la sopravvivenza di alcuni dalla morte di altri, il reddito di alcuni dalla miseria altrui". "Queste alternative riconducono tutte alla riterritorializzazione dei processi economici: non al protezionismo, che non è più praticabile; [...] bensì alla promozione ovunque possibile [...] di rapporti quanto più stretti, diretti e programmati tra produttori e consumatori di uno stesso territorio." Auguri.
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