Rassegna stampa

Ieri ho letto tre articoli che mi voglio appuntare.

Questo articolo riporta la storia di una ragazza che non è stata assunta in un negozio di Abercrombie&Finch perché porta il velo. La prima sentenza le ha dato ragione, una seconda ha ribaltato il verdetto, fondamentalmente stabilendo che siccome lei non ha fatto presente ad A&F che porta il velo per ragioni religiose, la società aveva diritto a non assumerla in quanto non seguiva il "dress code" imposto nei negozi. Il sistema americano mi pare assurdo: esso non tutela i cittadini contro le discriminazioni (A&F non ti fornisce una divisa ma ti obbliga a vestirti in un certo modo), ma li tutela (almeno a parole) contro le discriminazioni a carattere religioso.
A me questo sistema pare, oltre che assurdo, soprattutto ipocrita: chi decide cos'è un abbigliamento religioso e cosa semplicemente un "fashion statement"? Se io dichiaro che la mia religione mi prescrive di indossare la maschera di Gene Simmons dei Kiss, ho diritto alle tutele riservate ai fedeli religiosi? A me questo pare un esempio lampante del contrasto tra le prescrizioni delle religioni "tradizionali" e quelle della religione più importante di tutte: il consumismo. La realtà è che il nostro stile di vita occidentale ci prescrive dei codici di abbigliamento (e non solo: peso, abbronzatura, capigliatura, ecc.) stringenti tanto quanto quelli prescritti dall'Islam o dall'Ebraismo. I tribunali che passano il tempo a discutere cause come quelle di Samantha Elauf non sono altro che strumenti di distrazione di massa dal reale cuore del problema.

Quest'altro articolo, invece, parla di Harar, la città dove si "rifugiò" Arthur Rimbaud a 26 anni. Consiglio la lettura a tutti i ventenni. La foto di Rimbaud è particolarmente impressionante: un bambino per i canoni attuali, un uomo fatto e finito nel 1880.

Venendo all'Italia, un editoriale sul Manifesto, intitolato "La democrazia che odia i cittadini", prendendo spunto da un commento di Eugenio Scalfari, descrive chiaramente lo stato comatoso della democrazia italiana. "L’Italia non è un caso unico. Le demo­cra­zia respin­genti ci sono ovun­que e in Ita­lia la si è comin­ciata a fab­bri­care da un quarto di secolo fa." "Quanto ai par­titi, il loro sof­fo­ca­mento è stato deli­be­rato. In nome di una demo­cra­zia che decide, li si è disat­ti­vati, pro­met­tendo che a col­ti­vare il civi­smo avrebbe prov­ve­duto la società civile. Solo che la società civile, peral­tro ambi­gua, non com­pensa l’attività di edu­ca­zione e inci­ta­mento che i par­titi di massa svol­ge­vano su vasta scala. Sono rima­sti i par­titi impro­pria­mente detti per­so­nali, che sono cir­co­scritte cosche affa­ri­sti­che, riser­vate ai super­pro­fes­sio­ni­sti della poli­tica, che non sanno nem­meno com’è fatto il mondo e che nutrono uni­ca­mente ambi­zioni di potere."
Prima prendiamo atto di questa situazione e ne traiamo le opportune conseguenze, meglio è.

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