La società signorile di massa, Luca Ricolfi

Questo libro è uscito alla fine del 2019, in tempo per ricevere giusto un poco di attenzione prima che la pandemia ci obbligasse a parlare d'altro per più di due anni. Ricolfi, un sociologo che insegna Analisi dei dati (e già questa qualifica dovrebbe farci drizzare le orecchie), sostiene che l'Italia rappresenta un caso unico tra le società occidentali, che lui definisce appunto come "società signorile di massa", cioè una società dove la maggior parte della popolazione usufruisce di consumi di livello "signorile", cioè 1) opulenti, e 2) basati sulle rendite piuttosto che sul lavoro. Per dirla in altre parole, che l'autore usa esplicitamente verso la fine del libro, e che abbiamo sentito così tante volte da suonare un po' fruste, stiamo vivendo al di sopra delle nostre possibilità, consumando una ricchezza che a un certo punto si esaurirà e lì saranno guai. E' chiaro che un'affermazione del genere si basa su una serie piuttosto lunga di definizioni e assunti, che l'autore si propone di sostenere nella prima parte del libro. Queste, in sintesi, sono:

1. il fatto che, nella popolazione over 15, ci siano più persone che non lavorano di quelle che lavorano;

2. il fatto che l'Italia sia in testa alle classifiche di NEET, cioè percentuale dei giovani senza lavoro e che non lo cercano nemmeno;

3. il fatto che i cittadini italiani poveri siano molto, molto pochi, e che la maggioranza delle famiglie abbia una ricchezza che garantisce loro un benessere mai raggiunto prima degli anni '90.

Purtroppo il problema è che avendo una mole imponente di numeri a disposizione è possibile dimostrare (o almeno sostenere) qualsiasi tesi. Tutti e tre i pilastri di cui sopra sono stati contestati in vari modi, dai più pacati a più astiosi (esempio di questi ultimi, i commenti apparsi sul Sole 24 Ore qui e qui). Non c'è dubbio che gran parte delle assunzioni di Ricolfi siano costruite a tavolino al servizio della tesi che l'autore vuole sostenere, ovvero che l'Italia non produce più ricchezza da quasi trent'anni, ha distrutto il valore dell'istruzione universitaria, e ha prodotto una generazione di gente che preferisce mangiarsi i soldi di papà piuttosto che fare sacrifici. Stabilita la (traballante) base di dati su cui si poggia quest'immagine del paese, Ricolfi dedica la seconda parte del libro ad analizzare i comportamenti di tale società, facendo in realtà più danno che altro alla sua tesi, in quanto non fornisce alcun elemento fattuale a sostegno delle sue analisi sociologiche, che purtroppo troppo spesso sembrano quelle che potremmo vedere formulate da un pensionato brontolone lungo il suo tragitto da casa al bar sport.

Il problema però è che Ricolfi non ha torto, nel senso che trovo indubbio che esista in effetti un'anomalia italiana, che andrebbe analizzata e compresa, e cioè il fatto che se il PIL italiano, fondamentalmente, non cresce da più di vent'anni, non si capisce come faccia la società a stare in piedi. C'è evidentemente qualcosa che non quadra. Questo qualcosa potrebbe benissimo essere il fatto che il PIL non è lo strumento adatto per misurare il benessere di un paese, e allora sarebbe interessante e necessario trovare lo strumento alternativo adatto. Allo stesso tempo, alcuni fatti discussi da Ricolfi sembrano innegabili: ad esempio il fatto che i poveri in Italia siano, in proporzione alla popolazione relativa, per la grande maggioranza non cittadini, cioè immigrati, e che a loro vengano assegnati i compiti più onerosi (e meno remunerati) dell'economia: dalla raccolta della verdura alle consegne a domicilio, all'assistenza casalinga e agli anziani, alla prostituzione. O il fatto che, da qualunque parte si voglia guardare il conflitto tra "quelli che producono" e "quelli che consumano senza produrre", il cambiamento demografico del paese è sotto gli occhi di tutti e ineludibile: tra pochi decenni avremo più pensionati che lavoratori. O il fatto che gli italiani spendano una mole immensa di soldi nel gioco d'azzardo e nelle lotterie (più di quanto lo Stato dedica alla sanità pubblica, sostiene il libro).

Ricolfi, intento nella dimostrazione della sua tesi dell'eccezionalismo italiano, non alza granché lo sguardo per cercare di inquadrare il nostro paese nelle tendenze più generali dei paesi occidentali e nell'ambito dell'economia globalizzata. Non si parla dei giovani di valore che ancora oggi vengono formati dalle università e in generale dalla società italiana ma che poi vanno a lavorare e produrre ricchezza all'estero. Non si parla se non estremamente di sfuggita dei flussi di ricchezza e reddito che arrivano in Italia dall'estero e che non sono ristretti agli introiti delle esportazioni ma dovrebbero includere anche gli investimenti e i salari pagati dalle aziende estere ai loro dipendenti italiani, ad esempio. Si suggerisce più volte che lo Stato è responsabile di sostenere l'effimero benessere degli italiani tramite il costante aumento del debito pubblico (dato anch'esso contestato da molti), e che allo stesso tempo la crescente complessità burocratica e legislativa creata dalla devolution di stampo leghista-federalista degli anni '90 ha reso la vita impossibile ai poveri imprenditori italiani, impedendogli di investire come avrebbero potuto. Non si parla molto dei flussi di denaro provenienti dall'Unione Europea, e dell'impatto (reale o potenziale) della legislazione comunitaria sul tessuto economico del paese.

In rete si trovano alcuni -non molti- tentativi di analisi dei temi sollevati da Ricolfi (che nel frattempo, a quanto leggo, è diventato una personalità televisiva ed è stato interpellato un po' su tutto), tra cui "Due società: la stessa Italia?", i dubbi sollevati alla fine della recensione su brandforum.it, "Possiamo uscire dalla trappola della società signorile di massa?" su vita.it, "Società signorile di massa o società signorile e basta?" su sbilanciamoci.info, fino a questa "Stroncatura libro: Luca Ricolfi, La società signorile di massa". Cercando in rete, per i masochisti è anche disponibile l'opinione di Giampiero Mughini.

In conclusione, per le persone che come me, pur non riuscendo ad aderire completamente alla tesi di Ricolfi, hanno la sensazione che in questo paese i conti non tornino, il libro offre comunque vari spunti interessanti. Uno è la citazione del saggio Teoria della classe disagiata di Raffaele Alberto Ventura, che esplora "l'esperienza del declassamento", reale o presunto, della generazione dei trenta-quarantenni odierni. Ricolfi osserva come nella nostra società "possano coesistere - e siano in qualche modo entrambi veri - due racconti opposti di quel che accade. O per meglio dire: sono sempre possibili due registri, uno vittimistico, l'altro stigmatizzante, ed entrambi sono attivabili sia per descrivere la condizione del produttore, sia per descrivere quella del non-produttore. ... Il giovane laureato che non lavora e, grazie alle risorse familiari, accede a consumi opulenti, può essere plausibilmente descritto come "bamboccione", sottolineando la sua condizione oggettivamente parassitaria, ma anche come disoccupato ed escluso dal mercato del lavoro, emblema della tragedia di un'intera generazione. Così il padre lavoratore, o il nonno che con la sua pensione di vecchiaia foraggia l'intera famiglia, può essere plausibilmente descritto nel registro vittimistico, come colui che si sacrifica e "tira la carretta" per assicurare i consumi di tutti, ma altrettanto plausibilmente come un privilegiato, fortunato esponente della generazione vissuta nei Trente Glorieuses, i gloriosi trent'anni di benessere seguiti alla seconda guerra mondiale. Credo sia difficile sottovalutare le conseguenze psicologiche di una simile condizione. ... il fatto, insomma, che per ogni relazione che collega un produttore-lavoratore a un signore-consumatore siano possibili due descrizioni opposte, non può non avere effetti di straniamento e incertezza, quando non di più o meno aperta conflittualità."

Un secondo aspetto interessante è introdotto dalla citazione del saggio A nation of wimps di Hara Estroff Marano: "Quando poi interviene l'ansietà genitoriale per il successo dei figli, i genitori finiscono per subentrare ai loro ragazzi, o per fare cose per loro, perché desiderano che abbiano successo e siano felici. Ma questo significa fraintendere grossolanamente che cos'è la felicità. Non si diventa felici per assenza di difficoltà. La soddisfazione più grande si ha quando ci si pone un obiettivo ambizioso, ci si impegna nel raggiungerlo, non avendo la certezza di farcela, e si raccolgono tutte le proprie forze per tendere a esso. In nessuna situazione si è più felici che in questo sprint finale verso una meta impegnativa, quando puoi quasi assaporarla ma devi ancora fare un ultimo passo per raggiungerla. E' questo il modo in cui il cervello crea stati mentali positivi e un senso di soddisfazione che è di gran lunga più duraturo che comprare l'ultimo gadget."

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