Due cose da non fare quando sei un(a) manager

 

C’è una letteratura sconfinata sui manager “tossici” e i danni che causano nelle organizzazioni dove lavorano. Questa viene distillata in numerosi post sui social network che elargiscono illuminanti consigli per il management, a loro volta per la stragrande maggioranza riassumibili nella semplice massima di “non essere uno stronzo” o poco più. Che un lavoratore abbia il diritto di non essere mobbizzato dovrebbe essere un concetto talmente assodato da non meritare ulteriori commenti. Sarebbe forse più interessante parlare dei piccoli comportamenti errati che anche il manager più ben intenzionato può finire per compiere, causando danni potenzialmente gravi. Ho un paio di esempi.

In uno dei miei primi impieghi avevo un contratto della durata di due anni, che prevedeva che al termine dei quali a) l’azienda poteva confermarmi o no, e b) io potevo andarmene senza necessità di preavviso. Caso vuole che proprio verso il termine di tale periodo io mi fossi messo alla ricerca di un nuovo posto di lavoro, trovandolo abbastanza facilmente. Alla scadenza dei due anni (forse un paio di giorni prima) mi presentai con la lettera di dimissioni all’ufficio del personale, dove fui accolto con grande stupore, telefonate concitate al capo e al capo del capo, e commenti del tenore di “Marco ma ti avremmo confermato sicuramente!” e simili. Avevo fatto bene il mio lavoro per due anni e quella sembrava essere la prima volta che si accorgevano della mia esistenza.

Avrei forse dovuto comportarmi diversamente. Ma ero inesperto e soprattutto sapevo che l’azienda che stavo lasciando non poteva offrirmi quello di cui avevo bisogno nell’immediato futuro.

Ma la cosa da non fare quando sei un manager è lasciarti scappare le risorse di valore perché non hai trovato il tempo per chiedergli ogni tanto “come va?” (e soprattutto per stare ad ascoltare la risposta). 

Naturalmente, nel mondo ideale ogni azienda costruirebbe chiari percorsi di crescita per ogni lavoratore e controllerebbe periodicamente le aspettative e i progressi. Ci sono bizzeffe di strumenti informatici per farlo, ma un bloc notes o un foglio excel vanno altrettanto bene, se l’iniziativa è genuina e non un semplice adempimento burocratico. In mancanza di percorsi di carriera strutturati è comunque necessario confrontarsi periodicamente con ogni componente del gruppo e avere discussioni oneste e soprattutto costruttive riguardo l’efficienza del lavoro e la soddisfazione del lavoratore.

Il nuovo posto di lavoro era un’azienda di consulenza di quelle dove si va rigorosamente in giacca e cravatta e si producono tonnellate di carta (o documenti word o powerpoint) per il supposto beneficio dei clienti. Grazie a un onboarding consistito fondamentalmente in “questa è una lista di newsletter e newsgroup di sicurezza informatica, iscriviti e leggiteli”, dopo alcune settimane ero in grado di scrivere il mio primo documento per un cliente. Non ricordo più di cosa si trattasse, credo fossero poco più di quattro-cinque pagine. Lo mandai al mio manager / mentore (il mio “senior”, nel gergo dei consulenti-in-cravatta), che me lo ritornò completamente corretto, dove con “completamente” intendo un campo di battaglia di correzioni, ogni singola frase riscritta secondo il suo gusto e prospettiva: le subordinate rimescolate, le forme passive diventate attive, quelle attive diventate passive. Ogni singola frase.

Fu una di quelle occasioni in cui la mia sorpresa fu tale che dovette immediatamente risultare evidente nonostante i miei sforzi per accettare in maniera diplomatica il responso del maestro. Per fortuna la situazione si disinnescò quasi subito: io dissi qualcosa del tipo “Vincenzo, se pensi che io non sia in grado di scrivere in italiano, forse avete fatto male ad assumermi”, Vincenzo si rese immediatamente conto di aver esagerato, e convergemmo rapidamente su una versione del documento non molto distante dal mio originale, che non sarà stato perfetto ma non era neanche in sanscrito e tutto sommato diceva cose corrette.

Quindi la seconda cosa da non fare se sei un manager è trattare i componenti del tuo team come se fossero dei bambini delle elementari ai quali il maestro deve riscrivere il tema da cima a fondo.

I benefici sono evidenti, sia per la sanità mentale del manager che, soprattutto, per la motivazione dei lavoratori. Dando per scontato che il gruppo di lavoro sia composto da professionisti in grado di fornire le prestazioni minime necessarie al ruolo assegnatogli, il manager deve accettare che persone diverse svolgano i loro compiti in modo diverso tra loro e, soprattutto, diverso da come li avrebbe fatti lui/lei. Il feedback che un manager fornisce ai lavoratori più giovani (che hanno bisogno più di mentori che di “capi”) deve in primo luogo riguardare il più possibile la sostanza e il meno possibile la forma, tranne, ovviamente, quando la cattiva qualità della forma inficia la fruizione della sostanza. Vanno sottolineati gli aspetti positivi (“bravo, hai completato il documento in tempo e hai coperto tutti i punti richiesti!”) e quindi fornite indicazioni per migliorare ulteriormente.

Lodare gli aspetti postivi del lavoro altrui anche quando ci pare meno che ottimo è un modo per i manager di imparare a gestire l’arte del delegare nel modo meno stressante possibile, e soprattutto fornisce ai componenti del team la gratificazione necessaria a mantenere viva la volontà di migliorarsi.


Commenti