Due parole sullo smart working


La prima cosa da fare quando si parla di smart working è di non chiamarlo smart working. Dall’avvento dello smartphone in poi siamo stati sommersi da un orwelliano newspeak a base di “smartcose” e “smartconcetti” dove l’etichetta di smart viene assegnata dopo aver sovraccaricato di tecnologia (reale o anche solo potenziale: pensiamo alle “smart cities”) l’oggetto originale. La truffa sta naturalmente nel fatto che il termine “smart” suggerisce un attributo incontestabilmente positivo e impedisce quindi qualsivoglia dibattito sull’effettiva bontà dell’iniziativa, e riduce gli scambi di opinioni a riguardo alla semplice tifoseria: ingenui tecnottimisti da una parte, bastiancontrari variamente filosofeggianti dall’altra.

Parliamo quindi di qualcosa di più circoscritto e quindi facilmente identificabile, che io chiamerei “lavoro agile”, inteso come telelavoro, dalle sue modalità più semplici a quelle più flessibili. Parliamo quindi di lavori d’ufficio, già digitalizzati o digitalizzabili. In realtà, ricordo che si iniziò a parlare di “smartworking” prima della normalizzazione del telelavoro, usando il termine per giustificare una sorta di fase 2 dello smantellamento dei tradizionali spazi per uffici: dopo aver introdotto l’open space (che sta a un ufficio come un tendone dell’Oktoberfest sta a un ristorante) alcune aziende ebbero la brillante idea di cancellare le postazioni di lavoro personali dando il “liberi tutti” all’accaparramento di sedie, scrivanie o trespoli vari giorno per giorno secondo necessità ma soprattutto disponibilità. Fortunatamente tale barbarie non si è affermata, grazie all’avvento di connessioni Internet finalmente in grado di sostenere in maniera affidabile i collegamenti alla rete aziendale, evitando quindi di dover stipare in ufficio tutta la forza lavoro fino all’ultimo consulente impegnato su Excel e Powerpoint tutto il giorno.

Il telelavoro ha permesso, tra l’altro, l’esplosione della presenza dei vendor tecnologici globali (che è un eufemismo per “statunitensi”) in molti paesi europei “di seconda fascia” come il nostro, dove la scarsa maturità del mercato o l’insostenibile burocrazia non avrebbero mai giustificato l’apertura di un ufficio fisico.

Io lavoro in questa modalità da quasi 17 anni e ho sempre sostenuto che il lavoro agile rappresenta una sfida per il management prima ancora che per gli impiegati. Fino dal pre-smartworking degli open space deregolamentati, tali iniziative erano motivate quasi esclusivamente da supposte ottimizzazioni economiche ed erano improntate, organizzativamente parlando, all’anarchia. Prevedibile risultato: totale deresponsabilizzazione dei manager, peraltro totalmente impreparati sul tema, relativo panico e reazioni inconsulte, caos e crollo della produttività. Per assurdo, il telelavoro a base di webex e chat ha riportato un po’ d’ordine, pur continuando a scontrarsi con manager senza la più pallida idea di come gestire questi nuovi tipi di gruppi di lavoro.

Potremmo spendere molte pagine a descrivere il tipo di disciplina richiesta al telelavoratore, e sarebbe certamente utile e necessario, nonostante si siano già espressi a riguardo quasi tutti gli influencer, motivator, guru ed evangelist in possesso di almeno un account su un social network. Diciamo solo che al telelavoratore è appunto richiesta - e necessaria - la disciplina di seguire in maniera affidabile un orario di lavoro tutto sommato “standard”, di dotarsi di una postazione di lavoro tutto sommato “standard”, e di presentarsi in video in tenuta tutto sommato “standard”, coniugando queste richieste di massima coi benefici propri della flessibilità di questa modalità di lavoro.

Trovo più interessante, però, e contemporaneamente meno esplorato dai guru/motivator di cui sopra, sottolineare le sfide che il lavoro agile presenta ai manager e ai leader di gruppi di lavoro. Purtroppo, periodicamente leggo ancora, con sconforto, qualcuno affermare che senza lavoro in presenza “non è possibile creare spirito di squadra” o non sia possibile raggiungere alti livelli di produttività o creatività. La realtà ci dice invece che queste cose sono possibili, e chi afferma il contrario lo fa solo perché non ha la fantasia o le competenze per immaginarsi un modo di fare ufficio diverso da quello pre-Internet.

Al leader del gruppo di lavoro “agile” o “ibrido” è richiesta non solo un’ottima comprensione degli obbiettivi aziendali (cosa che ahimè non è scontata nemmeno tra i manager “tradizionali”), ma una superiore capacità di comunicazione e un’ottima padronanza degli strumenti tecnologici a disposizione, accompagnate, idealmente, da un’esperienza diretta di lavoro agile. Il beneficio che si riceve in cambio è un netto aumento della produttività del team.

A questo punto è necessario spendere due parole sul termine “ibrido”, anch’esso alquanto abusato. Per lavoro “ibrido” intendo due dimensioni dello stesso fenomeno: la prima si riferisce alle modalità di lavoro dell’impiegato, che lavora a volte da casa, a volte in ufficio, a volte in spazi di coworking, a volte dal cliente, a volte appollaiato su un trespolo in aeroporto o al bar. La seconda si riferisce alle aziende dove parte della forza lavoro utilizza principalmente le modalità remote descritte prima, e un’altra parte lavora invece principalmente in ufficio in modalità “tradizionale”.

Il team leader inserito in tali ambienti “ibridi” deve quindi da un lato adattare le proprie modalità di gestione e comunicazione alla realtà “nomade” e individuale dei lavoratori remoti e dall’altro deve mantenere aperti e vivaci i canali di comunicazione da e verso il mondo stanziale e comunitario degli uffici. I lavoratori remoti hanno bisogno - ovviamente - di periodici incontri di persona; questi però acquisiscono un’importanza particolare: non possono ridursi al semplice ritrovarsi insieme nello stesso luogo. In quanto elementi dirompenti della routine, devono essere associati a specifici obbiettivi e contenuti, che siano legati al business, allo svago, o a un mix di entrambi. Il valore fornito dagli eventi di persona deve essere superiore alla rottura della routine e alla perdita temporanea delle flessibilità fornite dal telelavoro. Analogamente, va evitato il rischio di disconnettere la “tribù dell’ufficio” da quella dei telelavoratori: purtroppo non è raro che i dirigenti dell’azienda siano quelli che adottano le modalità di lavoro più tradizionali, recandosi spesso in ufficio e dando vita alle modalità di management cosiddette “da corridoio” o “da macchinetta del caffè” basate sulle interazioni informali possibili in un ambiente condiviso. Pur riconoscendo l’evidente efficacia di questo tipo di comunicazione, essa porta con sé due gravi rischi: il primo è quello di prendere il sopravvento sulle relazioni più formali, generando infine confusione e incomprensioni; il secondo è quello di escludere i telelavoratori dai flussi decisionali. Risulta quindi evidente che il successo degli ambienti di lavoro ibridi è a carico degli alti dirigenti “tradizionali” rimasti in ufficio ancor di più dei leader dei team di telelavoratori.

Purtroppo, non mi pare di registrare cambiamenti particolarmente innovativi nella gestione della “nuova normalità” del lavoro agile post pandemia. Lo “smartworking” è sempre più sinonimo di schemi fissi preconfezionati e paracadutati sui lavoratori, più simili ai part-time verticali/orizzontali di una volta che a un lavoro “agile”. Frasi molto comuni come “la mia azienda mi lascia fare due giorni di smartworking” sono drammatici ossimori che hanno l’effetto di svilire la pratica del telelavoro, cancellare i benefici dell’approccio flessibile, e di deresponsabilizzare i manager dalla reale gestione dei propri team. Sommando questi effetti, i risultati saranno, nella migliore delle ipotesi, l’azzeramento dell’incremento di produttività che sarebbe stato possibile grazie al vero lavoro flessibile, e in molti casi, conoscendo il carattere italiano, una montagna di mugugni e discussioni tra chi preferisce due giorni in smart e tre in ufficio e chi parteggia per tre in smart e due in ufficio.

Il rischio che corriamo nel futuro prossimo è quindi che per semplice pigrizia e impreparazione molte aziende finiscano per tornare a concedersi il lusso di buttare ore in pendolarismo ogni giorno che invece potrebbero essere dedicate al benessere degli impiegati. L’esplosione di disponibilità di ambienti di coworking potrebbe essere la triste conclusione di questo percorso o il primo passo verso un nuovo modo di fare comunità al lavoro.

L’altra variabile, per me imponderabile (ma trovate innumerevoli opinioni perentorie a riguardo su qualunque social network), è l’approccio al lavoro agile dei lavoratori stessi. Esiste davvero una “generazione” di lavoratori che vede il telelavoro come un diritto acquisito e una caratteristica scontata di qualunque lavoro di concetto degno di tale nome? E se esiste, avrà la forza e la possibilità di far sentire la propria voce?

 

 

Commenti