Biennale di architettura di Venezia 2023

Si chiude a fine novembre la Biennale di Venezia di architettura, che da tempo volevo visitare. La mostra si articola in due siti (Giardini e Arsenale), dove sono allestiti i padiglioni permanenti di alcuni paesi ed esposti i lavori di studi di architettura e design, quest'anno curati con una particolare attenzione all'Africa. Altri eventi e padiglioni sono presenti nel resto della città: la modalità di accesso a questi ultimi non è chiarissima -noi non li abbiamo visitati- ma assumo che i biglietti "normali" consentano l'accesso anche ad essi. 

Di architettura non è che se ne veda molta - almeno per quanto mi aspettavo io, cioè una serie di proposte o soluzioni alle sfide dell'urbanizzazione, della globalizzazione, delle migrazioni. Si vede invece molto design, termine che include un po' di tutto, dalle forme innovative agli esperimenti più concettuali fino a quelli più sterili o autoreferenziali. 

I padiglioni nazionali presenti ai Giardini sono più spesso oggetti esposti essi stessi che contenitori di mostre. Tra quelli più interessanti, quello del Giappone, con la sua cascata di ciottoli, e quello dei paesi nordici, che avvolge due grandi alberi.

I padiglioni nazionali, tra l'altro, rimangono nei giardini a testimonianza del passare del tempo e delle ere politiche e ideologiche, soprattutto per quanto riguarda l'est europeo.
 

Tra le cose esposte che mi hanno interessato maggiormente, l'opera "The waterworks of money" esposta nel padiglione olandese. Ho un debole per questo tipo di lavori grafici, che mi affascinano.

L'architettura effettivamente esposta, come dicevo, non era molta, eccezion fatta per i modellini di vari edifici del continente africano -non particolarmente congeniali ai miei gusti- e per il padiglione della Cina, unico esempio di esposizione perfettamente a tema, dove erano proposte varie soluzioni di riqualificazione di quartieri di città cinesi.



Una cosa che mi ha negativamente colpito dell'esposizione -oltre, come detto, alla sterilità di alcuni padiglioni- è stata la scarsa fantasia posta nella colonna sonora sia degli ambienti che dei vari documentari proposti, quasi sempre limitata a vaghi suoni ambient non poco inquietanti, come ad esempio quelli inferti ai visitatori nell'altrimenti interessante padiglione del Bahrein.



Ora, io non ho niente in contrario al design, anche fine a se stesso. Certi esperimenti concettuali possono comunque servire ad accendere qualche neurone nello spettatore, o magari anche solo a destare meraviglia. 
Purtroppo, però, concentrarsi eccessivamente sugli aspetti intellettuali di un'opera di design o di architettura porta con sé il rischio di sconfinare nella stupidità o nella vera e propria molestia.

Esempio numero uno è la passeggiata fuori dai padiglioni dell'Arsenale, cosparsa di un'abbacinante ghiaia bianca, che ferisce gli occhi del malcapitato camminatore per i lunghi minuti necessari a percorrerla.
Risulta particolarmente deprimente osservare come decine o forse centinaia di architetti, progettisti e designer abbiano lavorato assiduamente per allestire una mostra ciclopica (come peraltro messo in chiaro dai biglietti, vanno considerate almeno 6 ore per una visita al volo) e nessuno abbia trovato nulla da ridire a sottoporre i visitatori all'attraversamento di una distesa bianca esposta al sole implacabile, senza traccia di un albero o una tenda a fare ombra.

A proposito di alberi e ombra, mi parrebbe legittimo aspettarsi una grande attenzione ai temi ambientali in una mostra del genere. Purtroppo invece, non solo s'è visto ben poco a riguardo -l'interessante "gioco" del padiglione coreano, la presentazione di qualche esperienza di recupero, gli esperimenti grafici interattivi di Singapore- ma gran parte delle esposizioni facevano uso smodato di maxischermi, col consumo energetico che possiamo immaginare. Si esce dalla mostra domandandosi perplessi cosa mai venisse esposto qua dentro prima dell'era degli audiovisivi.

Il retro inquietante di uno dei maxischermi

Lasciando la Biennale, un altro esempio di design messo al servizio dell'idiozia in cui mio malgrado incappo regolarmente è quello dei bagni maschili del coworking milanese dove periodicamente devo recarmi. Minuscoli cubicoli neri illuminati da un singolo faretto sul soffitto, che però risulta completamente inutile al momento dell'utilizzo, in quanto finisce per trovarsi alle spalle dell'orinante.
A qualcuno potrà sembrare un esempio stupido, o fuori luogo. A me invece sembra che descriva molto bene lo stato di molto design moderno, che ha completamente perso ogni attinenza con la funzionalità, sacrificata all'estetica a tavolino del software CAD dello studio di architettura, dove purtroppo non c'è ancora un'intelligenza artificiale a dare un metaforico scappellotto al designer che ottusamente piazza il faretto sempre al centro della stanza, anche se questo finisce per renderlo inutile.

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