Torre del mare, Bergeggi

Ieri abbiamo visitato il Parco Architettonico di Torre del mare, a Bergeggi.  

Nell'ambito di un festival dedicato all'opera dell'architetto Galvagni, una guida ci ha condotti per le strade del promontorio di Torre d'Ere, dove negli anni '50 iniziò la realizzazione di uno dei primi insediamenti turistici in Liguria. Il progetto, all'epoca criticato da più parti, rimase -non sorprendentemente, siamo in Italia!- incompiuto. Oggi sono censite 37 ville meritevoli di menzione, oltre ai cento appartamenti del condominio aggrappato al promontorio. Fa amaramente sorridere che sia stato criticato un progetto del genere -tutto sommato basato su molti buoni propositi- e si sia poi provveduto a seppellire l'intera regione sotto una criminale colata di cemento e speculazione.

Dalla visita, il profano del design come me -con la fortuna di vedere anche qualcos'altro oltre ai virtuosismi architettonici- può ricavare varie riflessioni.

La prima è che noi italiani abbiamo un'incurabile predisposizione al culto dei ruderi. Alcune delle ville versano in stato di abbandono e iniziano a mostrare segni evidenti di degrado.
Trovo criminale che i ricchi proprietari di queste dimore non solo non le abitino, ma non provvedano nemmeno alla loro cura. Trovo che la cura di un edificio, soprattutto quando costruito all'interno di ambienti naturali di grande bellezza, sia un dovere e un segno di rispetto verso la natura stessa, verso la fatica e la professionalità di chi l'ha costruito, e soprattutto verso la collettività, che non dovrebbe essere obbligata a sopportare la vista di muri scrostati ed erbacce infestanti.
Ma ancor più trovo tristemente sorprendente che intorno a queste opere d'arte e ingegneria abbandonate venga organizzato, come se niente fosse, un festival. Come se stessimo parlando dell'architettura degli antichi etruschi o, chissà, di un ignoto popolo extraterrestre. Trovo che un'iniziativa del genere, anche se sgorgata dalla creatività degli esperti di design, non possa prescindere dall'analisi critica di cosa è successo dopo che la mano dell'architetto ha messo su carta le sue forme artistiche.

L'altra riflessione è che descriverei le ville ancora frequentate ("abitate" mi sembra eccessivo - ne abbiamo visitate un paio) come mausolei per persone viventi. Monumenti freddi, che attirano a sé l'attenzione e finiscono per inghiottire l'essere umano, rendendolo insignificante. 
A queste case non importa molto se i proprietari sono vivi o morti. Non se ne nota la differenza: che sia una piscina svuotata o un soggiorno pieno di cianfrusaglie riposte per l'inverno, i luoghi non sembrano necessitare della presenza di esseri umani, che infatti sono assenti.

Come si diceva, pur lastricata di buone intenzioni, la strada per Torre d'Ere porta suo malgrado all'inferno dell'urbanistica. Della visione originale rimangono alcuni principi fondanti: i tetti delle case rimangono tutti sotto il livello della strada che risale il promontorio, in modo da non ostruire la vista a nessuno degli altri abitanti. Gli edifici, poi, sono fatti per scomparire -relativamente parlando- nella forma del promontorio: la "sparizione" è tale principalmente per chi in quelle case ci abita, non certo per la montagna che è stata aggredita e puntellata di cemento per abbarbicargli contro molte di queste grandi costruzioni.
Il condominio progettato da Galvagni è l'esempio macroscopico di questa contraddizione: un grande complesso praticamente invisibile agli altri abitanti di Torre del mare; più di cento appartamenti magicamente invisibili gli uni agli altri, eppure ognuno dotato ("democraticamente" è scappato di dire a qualcuno!) di vista sul mare e l'isola; ma allo stesso tempo una presenza ineluttabile all'occhio di chiunque passeggi sulla spiaggia tra Spotorno e Bergeggi. Le costruzioni di Torre del mare, fingendo di "integrarsi" col promontorio, affermano invece perentoriamente il dominio dell'uomo (e del cemento) sulla natura: io, all'interno della mia casa, non vedo altro che natura; tutti gli altri, di fuori, non vedono che cemento; l'isola di fronte a me, anch'essa, non vede che cemento.

Ma tutto ciò evidentemente non bastava. Dopo l'uscita di scena di Galvagni e del primo committente sorge, in cima al promontorio, un enorme condominio che finisce per rinchiudere, come in un anfiteatro, l'antica torre saracena.

Giunti in cima, ci ritroviamo, in questo nuvoloso pomeriggio d'ottobre, all'interno di una distopia. Il condominio è deserto. Si intravedono segnali di vita giusto in un paio di balconi. Tutti i negozi del piano terra sono abbandonati e sprangati, e rimarranno tali anche in estate. Le piastrelle delle scale ricordano i corridoi di certi cimiteri moderni. Orgoglioso del suo umorismo da due lire, all'ingresso ci accoglie il Bar Geggi, forse ignaro dei ragionamenti del Galvagni sulla matrice della forma e delle polemiche sulla speculazione edilizia, in ogni caso lì con la sua insegna a ricordarci dove siamo ora.
Mentre fuori tutto era progettato per fornire all'umano-padrone la vista indisturbata dell'orizzonte, qui ci si ritrova nel buio delle fondamenta che reggono il mostro, dal quale non si riesce neppure a uscire veramente, in quanto Torre d'Ere è ridotta a giardinetto, recintato e rigorosamente delimitato da piante, così che del mare e dell'isola non si riesce quasi più nemmeno a percepire la presenza.






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