Per tutta la mia vita ho sentito parlare di ecologia, di inquinamento, del problema ambientale e dei cambiamenti climatici. A scuola, su tutti i mass media, nei libri, abbiamo ricevuto tantissime informazioni e ci è stato presentato il problema in ogni suo dettaglio. Ricordo di aver sentito parlare del rischio di desertificazione del Sud Italia decenni fa. Si parlava di proteggere l'Amazzonia negli anni '80. Dei danni dell'inquinamento atmosferico. Della grande isola di immondizia in mezzo al Pacifico. E di innumerevoli altre minacce. Eppure la mia impressione è che più si parla di questi temi più l'uomo continua imperterrito non solo a non porvi rimedio, ma a rendere le cose ancora più gravi.
Più si parla di problemi di traffico e di inquinamento, più si costruiscono auto sempre più grandi. Più si parla di dissesto idrogeologico e di perdita di biodiversità, più la cementificazione del territorio procede. Più si parla di cambiamenti climatici globali e di disuguaglianze sociali, più lo sfruttamento delle risorse naturali continua, attraverso tecniche sempre più distruttive. E così via.
La realtà è che purtroppo nulla può arrestare la tendenza dell'homo sapiens, unico animale contro natura, a invadere tutto ciò che gli si pone di fronte. L'uomo, per qualche strana ragione legata al nostro DNA, vuole dominare brutalmente su ogni aspetto della natura che lo circonda, e lo fa modificandola a proprio piacimento e contaminandola in maniera irreversibile coi segni della propria presenza. Il dominio sulla natura non è sufficiente: ciò che l'uomo causa è la permanente modifica dell'ambiente circostante, in modo che la natura stessa diventi artificiale. I nostri occhi hanno perso memoria di cosa fosse una notte buia, perché la luce generata dall'uomo rende impossibile godere della luce delle stelle e, per assicurarci che nemmeno l'angolo più remoto del globo possa rimanere illeso dall'impronta dell'uomo, continuiamo a inviare nello spazio migliaia di oggetti in modo che nemmeno la vista del più potente dei telescopi possa esplorare un angolo di natura indisturbato. Eppure l'uomo continua ad accendere luci, per illuminare spazi vuoti, per dirigerle verso il cielo, o anche solo per vedere che dove prima c'era il buio ora c'è una luce.
Il nostro naso è costantemente offeso dagli odori delle discariche, delle fabbriche, dei veicoli. Non c'è scampo alla nube della presenza umana, e gli odori e profumi della natura sono assediati in minuscole oasi olfattive transienti: un arbusto dietro un angolo, forse una remota foresta. Eppure l'uomo continua a costruire camion e aerei sempre più grandi, e a profumare la propria casa come se l'aria naturale non fosse salutare a sufficienza, e a riempire il mondo di fumi che intanto saranno spazzati dal vento fino a diventare invisibili ma sempre letali.
Il nostro udito non ha tregua: il gran produrre e progredire dell'uomo è testimoniato dal rumore che fa. Dal rumore che fanno i veicoli, le fabbriche, gli umani stessi quando devono fare qualunque tipo di attività: le foglie cadute dagli alberi vanno spostate da qua a là, rumorosamente. Gli alberi vanno potati, rumorosamente. Le polveri nelle case vanno aspirate, rumorosamente. Il cibo va preparato, macinato, robotizzato, rumorosamente. I panni vanno lavati, centrifugati, profumati, rumorosamente. Non c'è minuto nelle ventiquattr'ore dove un uomo possa allontanarsi dal rumore di un altro uomo. Eppure, più si parla di inquinamento acustico, più nasce la necessità di utilizzare una nuova macchina, che ora ha anche i decibel certificati, e più il rumore aumenta.
Il cibo è sempre più distante dalla natura. Più vengono sottolineati i benefici della dieta mediterranea, più aumentano le catene di montaggio del cibo, prodotto, costruito, plastificato in massa e distribuito su tutti gli scaffali. Più di parla di slow food e sapori tradizionali, più i gusti convergono verso il sapore unico dell'oldwildwest-sushi-fusion-cucinacontemporanea. Più si parla dei pericoli del cibo ultraprocessato, più ne consumiamo. Più scriviamo libri sulla salute dei nostri bimbi, più compriamo medicine per curare le loro nuove malattie.
Le nostre mani non possono più toccare la natura. Devono essere disinfettate, perché toccano dove mille altre mani disinfettate hanno toccato. Toccando la frutta che compriamo al supermercato non sapremmo distinguerla dalla plastica in cui la insacchettiamo. La realtà intorno a noi è cosparsa di polveri e olii prodotti dai nostri innumerevoli motori.
E più si stampano libri, e più si fanno conferenze, e più si raccolgono dati, e più si fanno foto a ghiacciai in scioglimento, e più si parla dell'olio di palma, e più si parla di estinzioni, e più ci si ritrova nel mezzo di una siccità, di un tornado, di un incendio, più continuiamo imperterriti ad amplificare l'effetto che l'uomo ha su ogni angolo della natura intorno a noi.
Quindi forse sarebbe meglio smettere di parlare di queste cose. Sarebbe meglio smetterla di normalizzare il disastro ecologico continuando a parlarne ininterrottamente. Che si parli d'altro. Di com'è andata la partita di calcio, di cos'ha detto il politico di turno, di quanti morti ci sono stati oggi in un paese lontano. E magari si parli dei nostri fiumi in secca, dell'acqua portata con le cisterne, degli incendi boschivi, delle malattie tropicali in pianura padana, delle intossicazioni alimentari, delle malattie respiratorie. E chissà che un giorno qualcuno non si decida a fare due più due.
Nella foto sopra, un'area di servizio sull'autostrada A4 ha piantato una "play land" di plastica in mezzo a un prato decrepito, senza un filo d'ombra a proteggere né l'erba, che morirà, né la plastica, che si dissolverà in minuscole particelle nel terreno e nell'aria, né gli sventurati esseri umani, figli degli stessi umani che hanno costruito la play land, che si ritroveranno a respirare i gas scaricati dai milioni di motori in transito.
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