Mugugno di un vecchio informatico

Premesso che "informatico" può voler dire un po' di tutto, dal programmatore al sysadmin al supporto tecnico di pre o post vendita all'architetto di sistemi, ognuna di queste professioni implica un lavoro che ha come oggetto un qualche sistema di trattamento dell'informazione digitale. 

La grandissima parte dei lavori di concetto oggi utilizza strumenti informatici: un personal computer o uno smartphone, solitamente una connessione internet. Al soggetto che li compie, questi lavori richiedono un livello di alfabetizzazione informatica sufficiente a utilizzare tali strumenti. Nella società odierna, questa alfabetizzazione viene data per scontata in chiunque abbia completato la scuola dell'obbligo; questo è in effetti vero, soprattutto grazie alla crescente semplicità di utilizzo di tali strumenti. Meno diffusa è invece la capacità di utilizzare con profitto un personal computer, cioè la capacità di sfruttare appieno le funzionalità degli strumenti software a disposizione, in modo da migliorare la produttività e l'efficienza del lavoro. Questo è un grosso problema, perché milioni di persone si trovano alle prese con sistemi che non comprendono e non riescono a sfruttare, causando enormi inefficienze e relative frustrazioni. Ma non è di questo che parliamo in questa sede. Queste persone non sono "informatici": tanto quanto io non sono un elettrotecnico per il fatto di saper utilizzare una lavatrice.

Il fatto che mi turba è invece quello per cui, dopo ormai trent'anni di "carriera" nell'informatica, mi sembra di stare osservando gli esiti disastrosi dell'aver affidato la pratica professionale dell'informatica a chi informatico non è. Ciò che mi pare di osservare è una costante diminuzione della qualità dei sistemi informatici forniti ai consumatori e un'aumento delle inefficienze, incomprensioni, ed errori nella progettazione e implementazione dei sistemi informatici in ambito professionale, soprattutto se misurati rispetto alle enormi capacità computazionali disponibili. Se questo non vi sembra il caso, beati voi. E credo che la causa di tutto ciò sia principalmente da trovare nel fatto che, a un certo punto nel tempo (che io identificherei nella dotcom bubble di fine anni '90), l'informatica è diventata un settore professionale in cui chiunque poteva cimentarsi. E per chiarire a cosa mi riferisco con "chiunque", andate su Linkedin, prendere una manciata di professionisti dell'informatica a caso e controllate il loro corso di studi. Ci troverete filosofi, musicisti, psicologi, economisti, e letterati vari. Oltre a qualche raro informatico.

Mi capita relativamente spesso di sentire persone sostenere la tesi per cui l'oggetto dell'istruzione secondaria e addirittura universitaria ha poca importanza nella carriera professionale di un individuo. L'istruzione servirebbe a creare una forma mentis adatta alla comprensione di qualunque altro ambito di specializzazione, o addirittura avrebbe lo scopo principale di formare esperti di pensiero laterale, paradossalmente più efficaci degli esperti del campo specifico a risolvere i problemi propri di quel campo. Solitamente, queste tesi vengono sostenute -guarda caso- da persone con istruzione umanistica a proposito di lavori STEM.

Tralasciamo il fatto che è innegabile che in alcuni casi questo tipo di "competenze laterali" siano effettivamente utili ed efficaci: su questo non c'è dubbio. Ma è altrettanto ovvio che non può essere un concetto applicato a tappeto in ogni caso. Questo tentativo di disgiungere l'istruzione superiore dalla professionalità lavorativa, oltre a essere, a mio parere, compiuto in evidente malafede, ha due grossi problemi. In primo luogo, dobbiamo affermare chiaramente che è falso dire che si può essere un buon professionista informatico senza avere avuto una seria formazione teorica su concetti come le basi di dati, la complessità computazionale, l'architettura dei sistemi e delle reti, e quindi ovviamente di tutti i fondamenti di logica e matematica a questi sottostanti. Dovrebbe essere superfluo sottolineare che questo non corrisponde a dire che ogni buon informatico debba essere in grado di compiere una trasformata di Fourier o anche solo una fattorizzazione in numeri primi. Ciò che stiamo dicendo è che una specializzazione professionale deve essere costruita su fondamenta solide, altrimenti prima o poi mostrerà crepe, scricchiolii, o qualcuno di quei sinkhole che si aprono in mezzo alle città mostrando enormi voragini. Nessuno si sognerebbe di fare certi discorsi parlando di chirurgia o ingegneria edile, eppure per qualche strana ragione è accettabile laurearsi in lettere e poi andare a fare il sistemista Linux.

Secondo, non vale mai l'inverso. Dov'è l'ingegnere informatico che va a fare il maestro di geografia o l'interprete o l'avvocato? Per quale ragione dev'essere accettabile dare per scontato che il laureato in materie umanistiche possa applicarsi con successo in campi scientifici ma non il viceversa? Questa assunzione mostra un evidente pregiudizio: il filosofo è meglio del tecnico. Anche se a certificare lo status di entrambi c'è solo un pezzo di carta rilasciato da un istituto universitario.

Analogamente, inoltre, non si capisce perché il processo di specializzazione professionale (passare da una formazione iniziale di ampio raggio a una professione dagli ambiti più circoscritti) venga visto come perfettamente naturale mentre l'inverso (un tecnico specializzato che, per ipotesi, sapesse sostenere un seminario sulla letteratura italiana) è praticamente inconcepibile. In maniera perversa, questo avviene anche nel campo dell'informatica stessa. E' accettabile -e comune- che tecnici informatici provenienti da discipline meno specialistiche passino a occuparsi di sicurezza, uno degli ambiti che richiedono più specializzazione. Ma mai accade il contrario. Tutto ciò - una società che punta a rinchiudere le persone in gabbie ed etichette sempre più restrittive, in nome di una supposta maggiore efficienza- è naturalmente un grande spreco di talenti.

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